"A Montecoronaro (dieci casucce, una fonte, una chiesa e un'osteria: il necessario e il superfluo) domando quanto cammino c'è ancora per giungere alle sorgenti del Tevere.
- Una mezz'ora di qui n'avanza -. Seduto sulla soglia della sua casa , il vecchio alza lo sguardo al greto d'un sentiero bianco e ciottoloso che, dietro al paese, rode la crosta nuda del Fumaiolo: - Se va diritto non può sbagliare -. "Non può sbagliare, una mezz'ora": so che cosa queste frasi vogliono dire nella bocca di un alpigiano. Mezz'ora è un lasso di tempo mitico che esclude vagamente l'eternità; non può sbagliare è come "Dio l'accompagni".
Cerco a buon conto di un asino e di un ragazzo esperto. che guidi l'asino e me. Pazienti, e tutti e tre in fila (l'asino carico della sola bisaccia, come nella favola), si prende a salire. Di mezz'ore ne sono passate due e converrà ancora raddoppiare: tuttavia non mi duole la strada dura. Al passo lungo e uguale mi godo il sole a piombo di mezzogiorno, l'ombra corta dell'asino sui ciottoli, il silenzio del ragazzo. Come per l'erta di un santuario, mi pare debbano essere meritori il sudore e la fatica sulla traccia della sorgente. A ravvivare il fervore, mi ripeto che questo è "il giogo che Tever si disserra". Per dir tutto, oggi mi sento un po' pellegrino. Nel "postale", che risale la Valle Tiberina da Sansepolcro fino a Verghereto, quando stamani ho avvertito il meccanico che mi sbarcasse alla mulattiera del Fumaiolo, il sensale mio vicino di sedile, tutto curvo ed appoggiato com'era e ad ogni scossa dondolante sul suo bastone tra le gambe, mi si è voltato a metà: - Va a statare? -, - No; torno domani; vado soltanto alle vene del Tevere. - La faccia di lui s'è tinta allora di un sorriso e di una pietà appena canzonatoria: - Vedrà poco. - Gli ho risposto con umiltà; - E' il mio mestiere. - Quello ha fatto finta di capire. Poco o molto, era pur bella stamani, via via più alta nella luce e nel sole, la prima Valle del Tevere; Sansepolcro lasciato al piano tra vigne digradanti e còlti ricchi: Pieve S. Stefano, già montana, tutta raccolta e stretta fra le due porte, ruvida come una fortezza; e più su, valicato il Tevere sotto il colle di Bulciano, ecco i tetti rossi di Savignone che ridono, come un'isola sul bianco del fiume. Le coste alpestri che fiancheggiano il fiume e la strada, quando muore la vite, si rivestono di castagni e di querce; più avanti brillano chiare le prime faggete e i monti si aprono ai prati o si scosciano nelle radure.
Sul "postale" di stamani, era un'affabile viaggiare. All'imbocco delle mulattiere e dei sentieri, spose o ragazze scese dai casolari o dai paesetti della montagna, venivan lì ad aspettare la lettera, il fagotto, il paniere, il saluto. Tra loro e il meccanico, a voce bassa, correva una rete fitta di nomi, di incarichi, di commissioni, di avvisi, rotti alla fine, ogni volta, dalla ripresa del motore e da un saluto a voce più alta. A sera, le stesse donne, le stesse ragazze scenderanno ancora alla strada, verso il piano, a caricare il paniere di funghi, caci, ricotte, fiaschi e bocce col latte. Il linguaggio di questa gente non è più toscano soltanto, e non ancora romagnolo, e non umbro; tiene di questi accenti, ma con una sua gravità, una cadenza più breve. E grave è la vita di tutta la vallata; se non fosse qualche fumo lontano di carbonaia o di casolare, questi monti li direste deserti. Oggi come cent'anni fa, soli e con le greggi, in cerca di lavoro e di pascoli, gli uomini, alle prime piogge, emigrano al piano o al mare. Le donne, così belle da giovani, appena spose e madri sfioriscono nella solitudine e nel duro lavoro invernale. Di questa stagione, bazzicano quassù, in cerca di legna e di carbone, mercanti e mulattieri del piano; e a ogni osteria, a ogni capanno del monte, si incontrano maremmani, uomini di Pistoia, di Prato o del pian di Firenze, l'eterno fiorentino che papa Bonifacio salutò "quinto elemento" nelle cose del mondo. La franchezza un po' petulante di lui qui contrasta, ma non scompone il tacito montanaro...
Però, che avesse ragione il sensale di stamattina?
Quando in ripido pendio, al confine tra un prato arso e una rada faggeta, il ragazzo ferma l'asino, sfrasca con le mani tra i rami di un ginepro, e dice a me che son dietro: - Ecco il Tevere! -, e io vedo scaturire una polla tranquilla e chiara dentro una cunetta che poi di slabbra e perde il suo fil d'acqua già per la china, il mio primo pensiero a quel punto è stato che se l'asino avanzava ancora un passo e allungava il collo, il Tevere se lo poteva bere tutto. - Tira in là quella bestia! - Ginocchioni e curvo, le due mani alle ripe, tutta la faccia china sullo specchio vibrante, tiro su la frescura e l'acqua a grandi sorsi. Il ragazzo come ha anch'egli bevuto: -Duole ai denti. Diaccia d'estate e poi d'inverno calda che fuma.- Non so dirgli il perchè. Traggo invece di tasca qualche moneta e la lascio cadere nella fonte. Il rame, scendendo al fondo, si sfa e si ricompone lucido al brivido della corrente. - Porta bene (spiego). Porta fortuna. - E il mio compagno non dice nè si nè no. Più tardi disteso lì vicino a riposare, mi sono reso ragione del paesaggio, ho scoperto la necessità e, se così si può dire, la logica di quell'acqua. Erto tra la Toscana e la Romagna, tutto il nodo del Fumaiolo è il luogo di vene e di fonti. Se il Tevere vince col nome ogni altro fiume, esso ha anzi qui la sorgente più umile. Più ricco è il Savio che scaturisce dal Fumaiolo per l'opposto pendio di Romagna; porta acqua alla valle e alla pianura di Cesena, che appaiono da quassù lavorate e minute sotto il gran sole. Più ricco ancora il Senatello che imbocca subito la Marecchia e fino al luccicante mare irriga il piano dominato da S. Marino. E chi dalla vetta del Fumaiolo spinge lo sguardo sui due versanti, in Toscana e più in Romagna, segue e quasi sorprende, a gradi, gli effetti dell'acqua. Arsa e ferrigna la terra qui intorno, e come di cenere; ma via via che le acque del Tevere, del Senatello, del Savio declinando s'arricchiscono, il paese s'imbosca, poi verdeggiano le colture, poi si fanno spessi borghi e casali. E se dopo, dagli orizzonti lontani, riportate l'occhio alle pendici qui del monte, capite come questi prati qui arsi, questi frequenti scogli e viscicai, le radici dei faggi scoperte e scalzate sulla terra come enormi artigli, e i pruni stenti, e le fratte basse, capite allora come nel gran silenzio circolare questo sia un accidentato terreno di meraviglie e d'attesa. E' giusto che la fantasia abbia in ogni tempo visto assiso, alle sorgenti, un santo o un profeta.
Quando il ragazzo riprende la corda dell'asino per il ritorno, guarda prima me di sottecchi, e poi i soldarelli lasciati alla fonte. Sembra che, prima di partire, mi inviti a smettere la facezia. Ma io lo rincuoro: - Lascia i soldi lì, e abbi fede! -
Olindo Guerrini , bolognese di adozione e ravennate di nascita sta facendo un viaggio a piedi dalle sorgenti dell'Arno a quelle del Tevere; per gli scoscesi dirupi di Camaldoli, dell'Alpe della Serra e del Bastione è giunto a Montioni e ora sta salendo verso Montecoronaro.
"...E via per questa cenere maledetta che le acque piovane trasformano in lisciva e portano al Savio, per questi declivi calcinati che franano ad ogni stagione, giungemmo alle falde del M. Fumaiolo, nel povero villaggio di Montecoronaro. ... Nelle case cadenti, nelle mura rugginose e sconnesse, si spalancavano i vani neri delle finestre alle quali non si affacciava anima viva. Le strade scoscese, arroventate fino al color bianco, erano deserte. Di quando in quando certe figure lacere e giallastre attraversavano i viottoli senza far rumore, a capo chino come se pensassero a qualche mistero profondo, e incontrandosi, non muovevano nemmeno gli occhi, quasi non vedessero, non sentissero, assorte in una paurosa contemplazione.
Altrove i fanciulli ci correvano incontro, i villaggi andavano a rumore per l'arrivo dei viaggiatori dai cappelli stravaganti, dalle uose bianche, dai bastoni spettacolosi; qui, niente. Pareva d'essere nel mondo dei sogni, in un mondo di forme senza densità, di spettri pensosi, lenti, muti, che passavano senza vederci e ci lasciavano con un strana impressione di impassibilità, una penosa sensazione di fatalità infinita".
Mentre nell'osteria affollatissima di mosche, la padrona fa "gli occhi di pesce cotto a un giovinastro fra il giallo e il livido", "...presso la cappa del camino, sopra un alto seggiolone, sedeva un povero diavolo, giovane ancora, ma curvo e disfatto, con due occhi che parevano buchi con una scintilla in fondo. ...Era il marito dell'ostessa e la gelosia non lo rodeva, ma la febbre maremmana. Nel pieno vigore dell'età e della forza si sentiva ardere e consumare il sangue dentro e con un accento di cupa malinconia ci contava gli stenti della Maremma dove scendeva nell'inverno a fare il guardiano di non so quale principe. Di quando in quando un tremito ed una contrazione spasmodica alle mascelle gli strozzavano il discorso nelle fauci, e allora fissava gli occhi profondi nei carboni accesi come se ci vedesse qualcuno. ...Così ci fu spiegato come si possa vegetare su questi monti di cenere arida. I maschi scendono ad avvelenarsi in Maremma, e le femmine, prima che siano morti, passano a seconde nozze.
...Il piovano ci mostrò la chiesa. ...La pietra di un altare è fatta con una vecchia iscrizione cristiana e qui si conservava una croce proveniente dalla scomparsa abbazia del Trivio. ...Così meravigliati e scandalizzati, ripigliammo la strada per salire alle sorgenti del Tevere".